La parola disordo, in medicina, denota una patologia, un disturbo.
Ha una valenza negativa che si riflette sulla buona salute
di una persona.
Tuttavia, questa connotazione la possiamo ritrovare anche in natura. Per quanto perfettibile essa sia, è pur sempre limitata.
Tutto tende all’entropia, al caos. L’energia si dissipa e si trasforma in calore disperdendosi nell’aria.
Soltanto con uno sforzo di volontà possiamo riportare le cose allo status quo ante. Se lanciamo a terra delle biglie non si disporranno mai secondo uno schema preciso, se lasciamo che una palla rimbalzi a terra, poco dopo giacerà inerte. È necessario
un plus, una decisione convinta perché la palla possa continuare a rimbalzare o le biglie si strutturino in un disegno geometrico.
Il disordo è insito nella natura. Potremo intervenire su di essa per cambiarla, mossi dal desiderio che le cose vadano secondo
la nostra volontà.
Dobbiamo arrenderci, però, alla fine. Il disordo diventa irreversibile,
non si piega alla nostra precisa intenzione. Si può anche chiamare morte, disperazione: è consapevolezza di non aver più il potere di mettere ogni cosa a posto.
Varcato il limite, oltre il quale la nostra volontà è sostanzialmente
inutile, non ci resta altro che prendere coscienza di questa debolezza.
La morte mi fa paura: quella che ti sorprende con il volto innocente
di un bambino, di una vecchietta che sgrana gli occhi e ti stringe più forte che può il braccio, del giovane che gronda sangue sull’asfalto.
La sofferenza non è solamente dolore. Potrai mille volte combattere la tua guerra personale ma tutto, poi, ricade in questo stato ovattato che permea l’anima.
Non credo nella speranza e nel riscatto. Credo nel dis-ordo. È una visione totalmente anticristiana la mia ma parte dalla con14
vinzione che la natura è disordinata. L’entropia avrà la meglio sulla avvolgente entalpia.
Non esiste la distinzione tra res cogitans e res cogitata di cartesiana
memoria. Lo spirito della natura è autonomo, decide da solo il proprio stato simile a uno sbuffo di vento che ti accarezza.
La mia morte, la morte di ciascuno di noi, si concretizza nel vuoto, nella pazzia, nella assenza di un potenziale elettrico. La vita si appiattisce nel disordo e ne segue l’evoluzione storica del tempo.
Quarta di copertina
Con abile sapienza Carletto Genovese ci regala otto racconti diversi che si focalizzano su attimi particolari vissuti dai protagonisti. Né un prima, né un dopo caratterizzerà le storie, ma intensità e forti emozioni accompagneranno il lettore all’interno di un viaggio che toccherà vita, morte e quotidianità.
Citazione
The pain of war cannot exceed the woe of afermath
(Led Zeppelin, The battle of evermore)
Dedica
A Tiziana, che mi ha seguito su fino a North Pole, Ak, Usa.
Prefazione di Giovanni Lombardo Radice
Carletto Genovese è medico (per l’esattezza chirurgo d’urgenza in pronto soccorso) e questo dato biografico permea fortemente il suo modo di narrare. Non solo o non tanto perché molti dei racconti (forse i più belli) hanno a che fare con emergenze mediche, quando non addirittura con il confine terribile e misterioso fra la vita e la morte; ma piuttosto perché il senso, il modo stesso del narrare incide come un bisturi in qualcosa di molto diverso dalla forma del racconto, classicamente intesa.
Genovese non ci espone accadimenti, fatti dilatati temporalmente con un inizio, uno svolgimento e una fine. Le sue sono piuttosto “radiografie di istanti” o, se vogliamo, “cartelle cliniche”, che descrivono il personaggio-paziente nell’attimo in cui il medico-scrittore lo ha incontrato e visitato. Ma essendo un bravo scrittore (e, ne sono certo, un bravo medico), Genovese riesce, con il suo narrare l’attimo, a farci percepire l’interità e la complessità dei suoi personaggi, il dolore, il desiderio, l’afflato verso la vita o la morte. Ci sono vite intere in quegli attimi e noi, grazie alla sapienza e alla modernità della scrittura, ne percepiamo il palpitare. I suoi personaggi restano impressi, addirittura se non li conosciamo mai da vivi, ma solo da morti, come accade nel racconto a mio avviso più bello della raccolta, che tratta appunto di un’autopsia e di un espianto di organi dal corpo di un giovane deceduto in un incidente. Quei pezzi di carne violentati e trapiantati ci parlano di una vita che neppure il medico e lo scrittore conoscono e che pure possono immaginare e restituirci, con profondo dolore e pietà.
Come nella professione medica, c’è molta sofferenza e molta morte nei racconti di Genovese, ma, se il medico è un vero medico (e lo scrittore un vero scrittore), dalla sofferenza e dalla morte riesce sempre a riaccendersi e a vibrare l’anelito alla vita.
Giovanni Lombardo Radice
Copertina
La copertina è tratta da una fotografia di Stefano Zacconi, intitolata “gatto di Atene”, stampata su carta Lustre. Gli occhi del gatto, ci tiene a dire, non sono in alcun modo ritoccati. Lo posso confermare perché per farlo stare fermo, gli tintinnavo un paio di chiavi sulla sua testa. Il gatto era malconcio così come potete osservare dalle secrezioni del naso e degli occhi, ma la sua espressione era stupenda.